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Faber

Ceccon e l'infortunio di "Boia chi molla"

di Faber


Thomas Ceccon è un gigante del nuoto italiano. Lo è in senso letterale del termine con la sua altezza che sfiora i due metri e il suo fisico apollineo che regala allori e primati mondiali allo sport azzurro. Ventidue anni, nato a Thiene in provincia di Vicenza, Ceccon è apparso un predestinato fin da giovanissimo con il carico di medaglie conquistato ai Giochi olimpici giovanili di Buenos Aires nel 2018. Maturità al Liceo Sportivo, è tesserato per il Gruppo sportivo Fiamme Gialle, la Polizia di Stato.

Queste ed altre notizie sono pubblicate su Wikipedia con una pagina che soddisfa qualunque forma di curiosità di natura sportiva, mentre sono inesistenti riferimenti alla sua vita privata. Anzi. Se ci si muove un po' nel web alla ricerca di nuove tracce, si scopre che Ceccon viene è descritto come riservato e alieno da presenze social o comunque non particolarmente attivo. Fino a ieri.

Fino all'inaspettato balzo di notorietà cerchiato in negativo. Infatti, il suo messaggio Instagram, con evidente riferimento al desiderio di riscatto dei chiaroscuri del nuoto azzurro nei recenti mondiali di Fukuoka, nonostante la sua medaglia d'oro nei 50 farfalla, ha fatto sobbalzare il popolo dei social che si è ritrovato dinanzi a un "Boia chi molla!" di fascista memoria. Messaggio poi rimosso nel giro ventiquattr'ore accompagnato da scuse e dall'assumersi la responsabilità della frase di cui "non conoscevo le connotazioni storiche" ha precisato Ceccon, dissociandosi da ogni suo significato politico e ideologico“.

Invece, chi ha vissuto gli anni Settanta, conosce bene il significato della locuzione mortifera che ha attraversato la storia del fascismo e del neofascismo, contrassegnata da episodi in cui la violenza veniva confusa con l'onore e la virilità. Come a Reggio Calabria, quando nel 1970 un capopopolo del Movimento sociale italiano ed esponente del sindacato missino Cisnal con un nome che era già tutto un programma surreale, Ciccio Franco, accese la miccia di una rivolta metropolitana contro lo Stato, colpevole di aver trasferito il capoluogo della Regione Calabria a Catanzaro.

Un incendiario Ciccio Franco, che con quella frase che mise a ferro e a fuoco la città "Per Reggio capoluogo: Boia chi molla!", si guadagnò un'improvvisa popolarità con cui mise il cappello su un seggio in Senato per cinque legislature. E non solo. La sua fama diventò contagiosa, soprattutto tra i giovani dell'estrema destra affetti da prurito cronico alle mani e da una disperata voglia moltiplicare Reggio Calabria in tutto il Paese, anche a costo di ritrovarsi nuovamente i carri armati nelle strade da cui poter sperare, magari, in un golpe militare.

E quello fu uno dei motivi per cui il 12 aprile del 1973, un giovedì nero per Milano, l'uomo del "boia chi molla" scese all'aeroporto di Linate invitato dalla federazione del Msi-DN meneghina per partecipare ad una "marcia" promossa dal partito e dal Fronte della Gioventù missino che già nei propositi echeggiava come un ossimoro in bocca a un neofascista: "Contro la violenza". Vietata dalla Questura, la manifestazione si trasformò in piazza Fratelli Bandiera, luogo deputato al comizio, in una guerriglia metropolitana.

In quel maledetto pomeriggio, insieme con il gotha missino guidato dall'inossidabile federale di Milano Franco Servello c'erano anche i fratelli Ignazio e Romano La Russa, figli d'arte, in pole position nell'organigramma missino e, "guest star" della provocazione i picchiatori "sanbabilini", quel mondo a parte e di parte che teneva insieme intellettuali in erba (scusate il gioco di parole...), fanatici sedotti dalla memoria di Mussolini e della Repubblica di Salò, e la feccia violenta, delinquenti comuni, allora come ai tempi della Rsi, bacino di reclutamento per le scorribande anche in questo caso nel solco della migliore tradizione della Rsi. Da quella trasversalità estremista e livorosa volò la bomba SRCM trafugata da un arsenale militare che dilaniò l'agente Antonio Marino, seconda compagnia del Terzo Celere, giovane meridionale prossimo ai 23 anni.

Ora, che il campione Thomas Ceccon non conosca i risvolti storici ed ideologici di una frase non ci deve indignare, né ci deve stupire. Non è la prima volta che lo sport italiano scivola sul piano inclinato del cattivo gusto. Accadde anche a Gianluca Buffon, al portierone di Juve e Nazionale, quando indossò la maglia del Parma nella stagione 2000-2001 con il numero 88 stampato sulla schiena. All'epoca, Vittorio Pavoncello, presidente della federazione italiana Maccabi e responsabile sport della comunità ebraica di Roma, comprensibilmente si chiese: "L' 88 è il numero che i neonazisti tedeschi usano per dire 'Heil Hitler'. Se non fosse stato Buffon a scegliere questo numero, sarebbe passato inosservato, ma lui è quello che ha già mostrato una maglia con la scritta «Boia chi molla». Quello che vogliamo sapere è perché ha scelto quella maglia". Nella bufera si ritrovò anche l'attaccante laziale Paolo Di Canio, bicipite sinistro la scritta la scritta DUX e per questo cacciato dalle trasmissioni di Sky sport, ma da calciatore, esultante con il braccio teso sotto la curva nord dell'Olimpico, un gesto in linea con l'ambiente noto come destrorso della Lazio degli anni Settanta, ai tempi di Wilson, Martini e Chinaglia. Sul fascino che riscuote il fascismo nel calcio, si è soffermato anni fa l'articolo Calciatori fascisti: vediamo alcune storie in https://sportzoneweb.wordpress.com/2016/09/20/calciatori-fascisti-vediamo-alcune-storie/, quantomai utile per monitorare atteggiamenti vecchi e nuovi, con nomi che vanno da Christina Abbiati a Fabio Cannavaro, Daniele De Rossi ed altri, da cui si estrae una narrazione sembra più la punta dell'iceberg che l'eccezione della regola. L'aspetto più inquietante è comunque, al netto delle retromarce o dei distinguo tra nazionalismo del fascismo e leggi antisemite e alleanza con Hitler, il moltiplicarsi di comportamenti ostentati di concordanza al Ventennio da parte di personaggi sportivi. Comportamenti che nel passato erano o messi in ombra o ricordati "sottovoce", salvo quelle più vicine al colore di cui facevano razzia i rotocalchi. Esemplare il caso di Eraldo Monzeglio, campione mondiale nella Coppa Rimet del 1934 e del 1938 con la nazionale di Vittorio Pozzo, abituale frequentatore di Villa Torlonia per le sue lezioni di tennis a Mussolini, mentre di altri se ne conosceva l'adesione ideologica soltanto nel privato o all'interno degli spogliatoi.

Ritornando al caso Ceccon, non può non stupire però la latitanza dei dirigenti della Federnuoto (Fin) e della massima istituzione sportiva italiana, il Coni. In particolare, è difficile comprendere il ritardo con cui si è materializzato (ammesso che vi sia stato) l'intervento della Federnuoto. In primis con il suo inossidabile presidente, oggi sospeso, il sessantanovenne Paolo Barelli, che è sì un personaggio chiacchierato, indagato dal procuratore di Perugia Raffaele Cantone, lo stesso inquirente della spy-story che ha investito il ministro della Difesa Crosetto, ma che rimane un parlamentare di spicco e uno dei membri più influenti di Forza Italia. E che, almeno per la carta anagrafica, il "Boia chi molla" lo dovrebbe ricordare.

Analogo discorso per il sorridentissimo, abbronzatissimo e onnipresente presidente del Coni, Giovanni Malagò, classe 1959, ancora bambino ai tempi di "Boia chi molla", ma non a digiuno di storia e di politica per la sua parentela con uno dei ministri più vicini ad Alcide De Gasperi e presente nei suoi governi. Tra l'altro, caso vuole, che la traiettoria di Giovanni Malagò e quella di Paolo Barelli si siano incrociate una decina di anni fa, quando il primo venne inizialmente condannato dalla Disciplinare della Fin a 16 mesi di squalifica in qualità di presidente del Circolo Aniene poiché, si legge su Wikipedia, "ritenuto responsabile di 'mancata lealtà' e 'dichiarazioni lesive della reputazione' del secondo, ancora presidente federale, in precedenza denunciato dal Coni per una presunta doppia fatturazione. Nel dicembre successivo il Collegio di garanzia del CONI annullò ha la squalifica, sanzionando inoltre la FIN con il pagamento di 2.500 euro di spese legali.

Litigi a parte, un suggerimento, serio e non faceto, per quanto scontato, sorge spontaneo ai due eminenti esponenti: perché non si prova ad inserire un corso di antifascismo nello sport. Se non altro, si potrebbero ridurre al minimo figure non proprio lusinghiere e si concorrerebbe ad aumentare il tasso di valori democratici di cui si avverte la penuria nel Paese.

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