In attesa di riprendere l’attività del sito, attualmente in costruzione, l’Anpi provinciale
pubblica l’intervento del presidente sul giorno della Memoria, 27 gennaio.
di Nino Boeti
L’ Olocausto rappresenta il pozzo più nero e profondo nella Storia dell’umanità.
Lo sterminio di oltre 6 milioni di bambini, donne e uomini di origine ebraica, persone
innocenti, ha rappresentato l’apogeo della “Soluzione Finale” elaborata nella Conferenza
di Wannsee (gennaio 1942) dai criminali nazisti al potere in Germania. “Una soluzione
finale” preparata e preceduta da “atti amministrativi”, poi legislativi, del 1933, del 1935,
del 1938, con cui si diede forma all’esclusione degli ebrei dalle vita sociale del Terzo
Reich. Una discriminazione violenta che fece proseliti ed edbbe come primo imitatore lo
Stato fascista che nel 1938, con la complicità della monarchia sabauda, impose all’Italia
la vergogna delle leggi razziali.
Il 27 gennaio 1945 è la data dell'abbattimento dei cancelli di Auschwitz, quando l'ora
della libertà si scontrò con l'ora della vergogna e della barbarie. Primo Levi, nelle pagine
iniziali de “La tregua”, ricordando il momento in cui per la prima volta qualcuno di non
ostile giunse al campo, scrisse: ”Erano quattro giovani soldati a cavallo, che
procedevano guardinghi, coi mitragliatori imbracciati, lungo la strada che limitava il
campo. Quando giunsero ai reticolati, sostarono a guardare, scambiandosi parole brevi
e timide, e volgendo sguardi legati da uno strano imbarazzo sui cadaveri scomposti,
sulle baracche sconquassate, e su noi pochi vivi”. Quattro uomini armati che apparvero
però “messaggeri di pace”.
“Non salutavano - scrisse Primo Levi - non sorridevano; apparivano oppressi, oltre che
da pietà, da un confuso ritegno, che sigillava le loro bocche, e avvinceva i loro occhi allo
scenario funereo. Era la stessa vergogna a noi ben nota, quella che ci sommergeva
dopo le selezioni, ed ogni volta che ci toccava assistere o sottostare a un oltraggio: la
vergogna che i tedeschi non conobbero, quella che il giusto prova davanti alla colpa
commessa da altrui, e gli rimorde che esista, che sia stata introdotta irrevocabilmente
nel mondo delle cose che esistono, e che la sua volontà buona sia stata nulla o scarsa,
e non abbia valso a difesa”.
Anche quest’anno le manifestazioni per il Giorno della Memoria sono cominciate a
Torino con la deposizione delle pietre d’inciampo, piccoli tasselli di porfido nei
marciapiedi della nostra città a ricordare uomini e donne strappati con violenza alle loro
case, alla quotidianità delle loro famiglie e destinate a finire la loro vita in un campo di
concentramento. Dei 7172 deportati nei campi di concentramento di religione ebraica ne
sopravvisse soltanto qualche centinaio.
In un articolo di qualche anno fa sul quotidiano “La Stampa” Giovanni Sabbatucci
scrisse: perché tanti professori non si fecero scrupolo di occupare le cattedre lasciate
vacanti dai loro colleghi dispensati dal servizio? Perché i senatori di nomina regia
rimasero in silenzio nella quasi totalità? Perché il tema trovò così poco spazio nella
letteratura dell’epoca? Perché la Chiesa accettò la discriminazione limitandosi tuttalpiù a
criticare le motivazioni razziali? Perché gli imprenditori e i commercianti approfittarono
della condizione di minoranza degli ebrei per liberarsi di qualche concorrente, perché
nemmeno nei ceti popolari si registrarono proteste, magari silenziose, rispetto a quanto
stava accadendo? Perché i ragazzi e le ragazze delle scuole non si chiesero che fine
avessero fatto i loro compagni che non si presentarono più in classe da un giorno
all’altro?
Perché su 1848 professori universitari soltanto 13 non firmarono il documento di
sottomissione al regime fascista?
Gli italiani, in maggioranza, si rivelarono indifferenti alla sofferenza di queste persone.
Gli ebrei italiani erano circa 50 mila persone. Quale pericolo potevano rappresentare per
Mussolini? Di fatto italiani e italiane di religione ebraica che non avevano fatto nulla di
male.
Sono numerose le iniziative organizzate dalle sezioni dell’Anpi per tenere viva la
Memoria sul 27 gennaio del ‘45.
Tanti i concerti, organizzati dalle istituzioni.
La musica rappresentò, nel dolore più terribile, nelle sofferenze più indicibili, nella fame,
nel freddo, un modo per continuare ad essere vivi.
E quando parliamo di musica non possiamo non ricordare il ghetto di Terezin, il maggior
campo di concentramento nel territorio della Cecoslovacchia, che svolse la sua macabra
funzione dal 24 novembre 1941 fino alla liberazione avvenuta l’8 maggio 1945.
Vi passarono 140 mila prigionieri, ne perirono 135 mila. Degli 87 mila prigionieri deportati
ad Est dopo la guerra fecero ritorno solo 3097 persone. Fra i prigionieri del ghetto di
Terezin ci furono circa 15 mila bambini, figli degli ebrei cecoslovacchi deportati assieme
ai genitori. La maggior parte di essi morì nel corso del 1944 nelle camere a gas di
Auschwitz. Dopo la guerra non ne ritornò nemmeno un centinaio e di questi nessuno
aveva meno di 14 anni.
La propaganda nazista esibiva Terezin come un insediamento modello, dove si
componeva musica, si ascoltavano concerti, si organizzavano rappresentazioni teatrali.
Una orribile mistificazione della realtà.
La musica accoglieva i deportati quando arrivavano nei campi di concentramento avviati
verso le camere a gas, il nazismo riuscì a trasformare uno straordinario strumento di vita
in un gesto di morte.
Ricordiamo in questi giorni anche gli internati militari, seicentocinquantamila uomini che
scelsero di non combattere contro il loro paese e furono avviati verso i campi di
concentramento in Germania. Uomini che non si arresero e che sopportarono dolori
indicibili pur di restare fedeli al giuramento proprio paese.
Questa giornata però deve anche farci riflettere sul tempo nel quale stiamo vivendo per
evitare che la memoria diventi soltanto uno strumento di oggi e non del futuro. Il
fascismo esiste ancora nel nostro Paese. Non solo esiste, ma si alimenta ogni giorno di
fatti e di episodi nuovi. Sentiamo vicino a noi le parole del deputato Giacomo Matteotti,
colpevole di aver denunciato in Parlamento i brogli nelle elezioni del 1924 e ucciso mesi
dopo da sicari in camicia nera con l’avallo di Benito Mussolini: “il fascismo non è
un’opinione”, è un crimine.
Lo è per la nostra Costituzione, che alla dodicesima disposizione transitoria finale, vieta
la riorganizzazione del partito fascista. Lo è per la “Legge Scelba” che indica il reato di
apologia del fascismo. Lo è per la “Legge Mancino” che indica come reato l’incitazione
alla violenza, alle discriminazioni per motivi razziali, etnici, religiosi. Punisce l’utilizzo di
simbologie legate al fascismo.
Siamo per il mantenimento di queste leggi che sono alla base della nostra comunità
democratica. Anzi, di più. Siamo per la loro applicazione.
La nostra comunità deve tramandare la Memoria della Shoah senza cadere nella
consuetudine del ricordo, ma deve interrogarsi, con ansia e timore, sul fatto che tutto
questo possa ancora accadere.
Così come ci ha ricordato Primo Levi: «Se comprendere è impossibile, conoscere è
necessario, perché ciò che è accaduto può ritornare, le coscienze possono nuovamente
essere sedotte ed oscurate: anche le nostre».
Nino Boeti, Presidente Provinciale Anpi di Torino
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