di Faber
"Altri incidenti si sono verificati in altre fabbriche: è probabilmente in relazione ad essi la partenza del Federale per Roma...".[1] Così scrive nel suo diario il dirigente industriale Carlo Chevallard il 10 marzo del 1943. Torino sta vivendo un fremito di antifascismo nelle sue fabbriche tra agitazioni e scioperi. Gli operai che incrociano le braccia reclamano l'aumento dei salari e rivendicano il pagamento di 192 ore di lavoro attribuite in un primo momento dal governo fascista soltanto agli operai sfollati e richiesto anche da tutti gli altri. Ma l'autore è ancora sospeso, come moltissimi italiani, tra l'amore di patria e la critica al fascismo. Il giorno dopo, Chevallard annota: "Si susseguono gli atti di indisciplina operaia: alla Lancia, alla Riv, ecc. Nella zona di Borgo Vittoria - dove sono stato oggi - numerosissime le scritte "Abbasso il Duce" e "Pace" "Vogliamo la pace". Un altro incidente si è verificato al cinema Nazionale domenica pomeriggio: all'accensione della luce tutte le pareti era cosparse di manifestini sovversivi". Il diario trascrive altri giorni di protesta operaia, di tensioni, di reazioni e di aggressioni. I "sovversivi" come li ha definiti Chevallard, che avrà modo di cambiare progressivamente idea, hanno piantato il seme di ciò a pochi mesi di distanza diventerà la Resistenza di un popolo in armi.
Ottanta anni fa, gli scioperi del marzo '43: il primo grande atto di ribellione durante la Seconda guerra mondiale in un Paese soffocato dalla tirannia fascista, è stato ricordato la settimana scorsa in un incontro organizzato presso la Cascina Roccafranca di Torino dalla sezione Anpi "Leo Lanfranco" e dal suo presidente Renato Appiano, cui hanno dato il loro contributo Carlo Ghezzi, vicepresidente Anpi nazionale, Nino Boeti, presidente Anpi Torino, Francesco Aceti, vicepresidente Anpi Torino, Claudio Dellavalle, storico, fino a pochi anni fa presidente di Istoreto, Daniele Valle, vice presidente del Consiglio regionale del Piemonte e presidente del Comitato Resistenza e Costituzione, Corrado Borsa, presidente dell’Archivio cinematografico nazionale della Resistenza), Gianna Pentenero, assessore al Lavoro del Comune di Torino, Luca Rolandi, presidente di Circoscrizione e Federico Bellomo, della Cgil di Torino. Infine, di rilievo il contributo dei ragazzi del Liceo Artistico Statale “Renato Cottini” di Torino, che hanno elaborato una serie di manifesti sul tema degli scioperi del ‘43.
Tante voci unite alla Cascina Roccafranca per costruire quel filo rosso della memoria che fissa in un unico affresco il braccio di ferro tra operai e Regime fascista che si consumo il 5 marzo 1943. Quel giorno la sirena delle 10, che in tutte le città italiane simulava l'allarme aereo, non suonò nello stabilimento Fiat di Mirafiori. Pochi minuti più tardi, corre un grido da un reparto all'altro: sciopero. E i primi ad allontanarsi dai macchinari sono gli operai dell'Officina 19, dove lavora Leo Lanfranco, comunista, un uomo tutto di un pezzo che si è meritato la stima dei suo compagni di lavoro per la coerenza delle sue idee al servizio dei comportamenti quotidiani. Non è un caso che proprio dall'Officina 19 si forma un corteo interno che fa da megafono allo sciopero nelle altre officine e da Mirafiori l'eco si propala anche in altre fabbriche: alla Rasetti, alla Microtecnica, alla Fiat Grandi Motori, alla Westinghouse, alle Ferriere piemontesi, alla Savigliano e alla Fiat Lingotto.[2] Fu un'onda lunga e profonda di un'avversione al fascismo, alla guerra, alle privazioni, che si trasformò in lotta e che pose per la prima volta mise il capo della polizia Carmine Senise (di lì a poco sarà rimosso da Mussolini) sulla difensiva. In un dispaccio a prefetti del regno, questori e agli ispettori della famigerata Ovra, scrisse che "non può sfuggire la gravità et significato manifestazione evidentemente preordinata, causata da un'intensa propaganda partiti sovversivi, specialmente partito comunista...".
La conferma che il Regime, nonostante l'intensa attività poliziesca e di spionaggio, non aveva più tutte antenne amiche presenti sul territorio e soprattutto nei centri industriali. Quattro mesi dopo, lo scopre anche Benito Mussolini, defenestrato il 25 luglio del 1943, ufficialmente dal Gran Consiglio del Fascismo, dietro le quinte da una congiura della Monarchia e degli Alti comandi militari.
Note
[1] Carlo Chevallard, Diario 1942-1945, Blu Edizioni, 2005, pagg. 45-46
[2] Paolo Spriano, Storia del Partito comunista italiano, Einaudi, vol. IV, pag. 175
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