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Mario Beiletti

Ottant’anni fa l'8 settembre, il collasso della vecchia Italia

di Mario Beiletti*

Gli antefatti meritano una trattazione a parte: l’esercito italiano alleato al tedesco impantanato in Grecia e nei Balcani, la disastrosa ritirata di Russia, la delusione del popolo italiano ingannato sulla reale consistenza di un esercito mandato allo sbaraglio senza mezzi né preparazione. I pochi che ritornano dalla Russia raccontano… La fame attanaglia. In marzo scoppiano i primi scioperi nelle fabbriche: si chiedono aumenti, ma hanno già una caratterizzazione politica. L’insofferenza aumenta. Il 25 luglio Dino Grandi, dal Gran Consiglio del fascismo, pone la questione, mette in minoranza Mussolini, accusato di aver portato l’Italia ad una guerra impossibile da vincere. Mussolini è sfiduciato, si reca dal Re a porgere le dimissioni da Capo del Governo e viene arrestato. Ora è Badoglio il nuovo Capo del Governo, e subito soffoca la gioia popolare. “La guerra continua”, dice. Ma siamo agli sgoccioli…

Il 3 settembre Badoglio convoca i ministri degli Esteri Guariglia, della Guerra Sorice, dell’Aviazione Sandalli, della Marina de Courten e li mette al corrente delle trattative e dell’invio del generale Giuseppe Castellano in Sicilia; ma non li informa che alle 17.15 di quello stesso giorno è stato firmato l’armistizio a Cassibile. I ministri non sanno, quindi, che la guerra è finita. E si va avanti così, con mezze informazioni, trucchetti vari, inspiegabili silenzi anche verso la Marina fino all’affondamento alle 15.40 del 9 settembre della corazzata “Roma”, inabissatasi a nord della Sardegna dopo un bombardamento aereo tedesco. Furono 1.352 marinai del Roma che persero la vita, tra loro il comandante della flotta, l’ammiraglio Carlo Bergamini.

L'esercito venne lasciato in balia dei tedeschi, senza direttive né ordini. Ma l'8 settembre fu insieme il giorno della vergogna e del riscatto. Gli italiani trovarono da soli la via dell'onore e della salvezza, anche a costo di una guerra le cui ferite non si sono ancora sanate del tutto.

Non è un caso se a quasi ottant’anni dal giorno della vergogna e nonostante una bibliografia folta, spesso densa e a volte anche narrativamente molto brillante il quadro definitivo dell’8 settembre 1943 resta un film, Tutti a casa di Dino Risi, uno dei massimi capolavori della commedia all’italiana. Perché nel disastro dell’8 settembre e della sua gestazione nelle settimane tra la caduta del fascismo, il 25 luglio, e la fuga ingloriosa del re e del maresciallo Badoglio all’alba del 9 settembre, compaiono tutti gli elementi che il cinema di Monicelli, Risi e Comencini avrebbe poi impietosamente bersagliato: la bassezza, l’opportunismo, la pavidità, lo scaricabarile, la prevalenza dell’interesse privato dei potenti su qualsiasi altra considerazione, il tradimento, la doppiezza, l’inettitudine.

Ci sono tutti ma spogliati del velo di comicità di cui li avrebbe poi rivestiti la commedia all’italiana ed esposti invece in tutta la loro tragica realtà.

Come in film satirico gli alleati tedeschi scoprono che l’Italia si è arresa perché un maresciallo, contravvenendo ai regolamenti, si è sintonizzato sulla radio degli Alleati e ha trovato la notizia. Messo al corrente il feldmaresciallo Kesselring sul momento non ci crede: non sono passate 24 ore da quando il maresciallo Badoglio, gli aveva garantito “fedeltà all’Asse” con tanto di parola d’onore. Specificando che trattandosi di uno dei comandanti più anziani d’Europa la sua parola aveva un peso in più. L’armistizio nella sua versione “corta” alla quale sarebbe poi seguita quella dettagliata e “lunga”, era stato firmato 5 giorni prima a Cassibile, in Sicilia, ma era stato tenuto segreto per evitare la reazione immediata dei tedeschi. Gli Alleati sarebbero dovuti sbarcare a Salerno, come poi effettivamente avvenne il 9 settembre, e inviare i paracadutisti a Roma, come invece non avvenne perché gli italiani ammisero di non essere in grado di garantire la difesa della capitale come si erano impegnati a fare. In coincidenza con le due operazioni, dette Giant 1 e 2, si sarebbe rivelata la resa italiana. Ma a tutt’oggi è impossibile dire con certezza chi fosse stato messo a parte del segreto e dunque su chi ricada la responsabilità, anzi la colpa, di non aver fatto niente per evitare la rotta caotica e garantire la difesa da un intervento della Germania che tutti sapevano essere inevitabile. Nelle inchieste del dopoguerra i generali negarono di averne mai saputo niente. I cannoni ancora tuonavano e già era iniziato il rimpallo di responsabilità.

Anche la decisione di annunciare l’armistizio l’8 settembre sembra uscita da un film con Alberto Sordi. Gli italiani si erano convinti che il giorno X fosse il 12 settembre. Non che glielo avesse detto nessuno ma nei colloqui che avevano portato all’armistizio gli Alleati avevano alluso a un paio di settimane necessarie per lo sbarco, l’operazione Giant 1. Gli italiani si erano fatti due conti sul calendario e avevano deciso che la data fissata da Eisenhower, comandante delle truppe alleate, era il 12 settembre. La notte del 7 settembre due inviati di Eisenhower erano arrivati in gran segreto a Roma per verificare a che punto fosse la difesa predisposta per la capitale e avvertire che lo sbarco era deciso per il 9 settembre. Gli ufficiali che incontrarono caddero dalle nuvole. Portarono gli americani dal generale Carboni, direttore del servizio segreto militare, che rimase a sua volta sbigottito: l’operazione gli sembrava “incerta e avventata”.

Toccò svegliare alle 2 di notte Badoglio, che si coricava sempre alle 22. Il maresciallo, in vestaglia, provò a tergiversare, chiese di rinviare di quattro giorni, anche se in quei quattro giorni nulla sarebbe potuto cambiare: confessò che la difesa di Roma era impossibile, tanto che l’operazione Giant 2 fu sacrificata. Eisenhower perse la pazienza, minacciò l’Italia di conseguenze gravissime, alla fine bruciò i ponti e annunciò di persona, dai microfoni di Radio Algeri, la resa incondizionata dell’Italia. La conferma di Badoglio arrivò solo un’ora più tardi ma ci fu anche chi propose seriamente di smentire Eisenhower, negare l’armistizio e proclamare fedeltà alla Germania per guadagnare così alcuni giorni in più prima di ufficializzare la resa.

Un piano di difesa italiana in realtà c’era, l’OP 44. Non scattò mai. Nessuno ordinò di procedere. Il generale Ambrosio, capo di Stato maggiore, aspettava che firmasse Badoglio, provò anche a cercare il maresciallo, sia pur con poca convinzione, ma senza rintracciarlo. Badoglio nel vortice dello scaricabarile del dopoguerra giurò che nessuno gli aveva mai chiesto niente, poi specificò che la responsabilità non era comunque sua. A dare l’ordine avrebbe dovuto essere il capo delle forze armate, cioè il piccolo re che invece in quelle ore si preparava a fuggire precipitosamente da Roma, con lo stesso Badoglio, diretto a Ortona dove il convoglio reale si imbarcò per Brindisi. La nave era piena di militari e notabili in cerca di salvezza. Molti però rimasero delusi. La nave non attraccò. Sulla lancia regale, pur strapiena, trovarono posti in pochi. Gli altri tornarono mesti a Chieti e si diedero alla macchia. L’esercito fu abbandonato a sé stesso, completamente allo sbando. A difendere Roma, quando il 10 settembre i tedeschi lanciarono l’attacco, furono solo reparti autonomi fra cui i Granatieri di Sardegna e civili armati tra cui molte donne. Ci rimisero la pelle 1167 soldati e 120 civili.

In fondo già nel primo atto, il colpo di Stato attuato dal re sfruttando il voto contro Mussolini del Gran Consiglio, era inscritto molto del prosieguo. Vittorio Emanuele strinse caldamente la mano del capo del governo appena deposto, si dichiarò anzi “l’unico amico” dell’ex duce. Pochi minuti dopo, sulla porta di Villa Savoia, lo fece arrestare. Il consiglio di procedere così veniva da Carmine Senise, capo della polizia dal 22 novembre 1940, sostituito da Mussolini il 14 aprile 1943 perché la repressione degli scioperi di marzo era apparsa al duce fiacca. Il golpe del piccolo re lo aveva in larga misura organizzato lui e sarebbe infatti tornato al comando della polizia il giorno dopo l’arresto di Mussolini.

A differenza di quasi tutti gli altri, però, Senise non avrebbe abbandonato Roma e sarebbe finito a Dachau per due anni. Hitler, fosse stato per lui, avrebbe agito subito e con l’abituale ferocia contro i traditori. Nelle sue Memorie Albert Speer, allora il gerarca più vicino al Fuhrer, ricorda l’ira e l’“angoscia” di Hitler per “l’amico disperso”. Il colonnello Dollmann, l’italianista delle SS, lo convinse a soprassedere dal momento che la sostituzione del capo del governo rientrava nei diritti del sovrano d’Italia. Ma era solo un rinvio: l’operazione Alarico messa a punto dal Reich già da maggio, cioè l’occupazione dell’Italia settentrionale, fu avviata operativamente e nemmeno troppo discretamente già il 26 luglio. Per tutto agosto militari tedeschi continuarono ad affluire in Italia in attesa di entrare in azione dopo la prevista resa degli alleati. Nessuno li fermò. Badoglio e gli alti ufficiali avevano paura che, se lo avessero fatto, i tedeschi avrebbero scoperto il loro doppio gioco e li avrebbero fucilati.

Nella sgangherata corsa verso Ortona, all’alba del 9 settembre, il convoglio di auto con il re e Badoglio sfilò a un passo dal Gran Sasso dove dal 28 agosto, a Campo Imperatore, era prigioniero Mussolini, portato in un primo momento a Ponza, poi alla Maddalena, infine spostato sul Gran Sasso in vista proprio del previsto intervento dei tedeschi per liberarlo. Il prigioniero era prezioso in quanto merce di scambio con gli alleati, ai quali era stata promessa la sua consegna. Il tempo per prenderlo in carico ci sarebbe stato ma né il re né Badoglio ci pensarono per niente e il 12 settembre scattò l’Operazione Quercia, guidata dal generale Student, al quale la missione era stata affidata da Hitler in persona, e dal maggiore Mors, il vero “liberatore” di Mussolini.

Gli 80 militari di stanza a Campo Imperatore avrebbero potuto difendersi, partendo da una postazione considerata “imprendibile”. Lo fecero solo due soldati di guardia alla base della funivia, alle pendici del monte, e finirono ammazzati, le uniche vittime della giornata. Mussolini, anche su spinta di Senise, fu consegnato senza colpo ferire, senza difesa, senza tentare uno spostamento che pure sarebbe stato possibile. Il merito della brillante operazione però lo scippò l’ufficiale delle SS Otto Skorzeny, il cui ruolo nell’operazione si era limitato al reperimento di informazioni.

In tutto e per tutto, sin nei particolari, l’8 settembre sembrerebbe una farsa, l’apoteosi della miseria delle classi dirigenti italiane portata all’eccesso. Se non fosse invece stata una tragedia da ogni punto di vista.

L’esercito si liquefece come neve al sole. Chi poté scappò dalle caserme, indossò abiti civili e tornò a casa. Gli altri vennero intruppati dai tedeschi, caricati su camion e treni e portati in campi di concentramento in cui persero ogni diritto di prigioniero secondo le convenzioni militari. Denominati IMI, Internati Militari Italiani, considerati traditori, vissero un’odissea particolarmente dura. Quando Mussolini, liberato e portato in Germania, incontrò Hitler, questi gli impose di tornare in Italia e ricostruire una parvenza di Stato ed un esercito asservito al tedesco, l’RSI. Nacque la Repubblica di Salò, i cui emissari si recavano regolarmente presso i campi degli IMI promettendo la liberazione in cambio dell’adesione al nuovo esercito fascista. Ben 600mila furono i NO pronunciati dai prigionieri: nessuno voleva aver più a che fare col fascismo.

In Italia i soldati dispersi vennero richiesti di tornare in caserma, inquadrati nella RSI, ma anche qui la maggior parte dei giovani preferì nascondersi. Nelle montagne nacquero i primi nuclei di “disertori”, base per le future formazioni partigiane. Quando, a marzo del 1944, le richieste di rientrare in caserma si trasformarono in bandi minacciando la pena di morte per i disertori, la scelta fu obbligatoria. Nasceva la Resistenza armata.


* Articolo in parte tratto da un testo di David Romoli

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